La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, con la Sentenza n. 34586 del 17 settembre 2021, ha rigettato il ricorso proposto avverso il decreto di condanna emesso, a seguito di rito abbreviato, dal GUP del Tribunale di Milano, con il quale l’amministratore di un condominio di altezza superiore a 24 metri era stato condannato al versamento di un’ammenda di € 1.200,00, per non aver presentato la SCIA antincendio, sul presupposto dell’esistenza nella centrale termica e nei box auto di materiali infiammabili.
Respinta, dunque, la tesi difensiva dell’imputato che si basava sull’assunto per il quale la mera altezza di un fabbricato non costituisce di per sé “attività” soggetta alla normativa in tema di prevenzione incendi presuntivamente violata (art. 20, comma 1, D. Lgs. n. 139/2006), né, tanto meno implica il possesso, l’utilizzo, la detenzione e/o l’impiego di prodotti infiammabili, incendiabili o esplodenti, da cui possano derivare, in caso di incendio, gravi pericoli per l’incolumità della vita e dei beni.
Anzi, secondo la prospettata ricostruzione difensiva, rispetto a tali elementi, alcuna prova era stata offerta né raggiunta nel giudizio conclusosi con l’impugnata sentenza, la quale, dunque, sarebbe stata emessa sulla base di un presupposto indimostrato, atteso che –addirittura- all’interno del fabbricato vi erano condòmini senza centrale termica e senza box auto.
La Suprema Corte afferma la responsabilità ineludibile dell’amministratore di condominio, in materia di prevenzione incendi, sulla base delle seguenti considerazioni.
La sottoposizione dell’attività dei condomini di altezza superiore a 24 metri a controlli di prevenzione incendi, e l’applicazione di tale disciplina in forza di decreto presidenziale, sono elementi che risultano pacificamente dal D.P.R. 151/2011, il quale, all’Allegato I, al n. 77 della categoria A, indica tra le attività soggette a prevenzioni incendi, espressamente gli edifici di altezza superiore a 24 metri.
Che il titolare (responsabile) delle attività in oggetto, sia proprio l’amministratore condominiale è, inequivocabilmente, evincibile dall’art. 1130 c.c., n. 4, a mente del quale egli deve: “(…) compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio.”
Quanto, poi, alla presunta carenza probatoria dell’accusa sulla quale si fonda la sentenza impugnata, rileva la Suprema Corte come“(…) in epoca moderna, la disponibilità da parte di un condomino di altezza superiore a 24 metri di prodotti infiammabili, incendiabili o esplodenti, da cui possano derivare, in caso di incendio, gravi pericoli per l’incolumità della vita e dei beni, risulta classificabile tra quelle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (…).”
In quanto tale, ai sensi del secondo comma dell’art. 115 c.p.c., trattasi di elemento che il giudice può porre a fondamento della decisione senza bisogno di prova.
Pertanto, sulla base di questi presupposti –esistenza di un’attività, per decreto regolamentare, indicata tra quelle soggette a prevenzione incendi; responsabilità in capo all’amministratore, in forza di disposizione codicistica ed esistenza presunta, nella disponibilità del condominio di notevoli dimensioni, di materiali infiammabili- avrebbe dovuto essere il ricorrente a fornire elementi probatori di segno contrario o utili, quantomeno, a far insorgere il ragionevole dubbio in ordine ai fatti a lui contestati.
Essendosi quest’ultimo, viceversa, limitato ad una mera allegazione di principio, rimasta priva di concreti riscontri, a tale inerte comportamento processuale,non poteva che conseguire la condanna dell’incauto amministratore.
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