Nell’ambito di un rapporto di vicinato burrascoso e caratterizzato da continue e reciproche denunce (alcune per minaccia di morte), la parte offesa aveva incaricato un investigatore per acquisire prove dell’altrui comportamento persecutorio.
Tra queste erano figurate anche delle video riprese dei luoghi di abitazione degli stessi imputati, che si erano difesi sostenendone l’inutilizzabilità processuale, conseguente all’ipotesi di reato in oggetto. .
La norma, che punisce “chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614”, mira a proteggere il diritto alla riservatezza del cittadino, che per antonomasia si esercita negli ambienti domestici (Cass. Pen. Sez. V, n. 10498 del 08.03.2018).
Pertanto, ne deriva che nessuno possa violare l’intimità altrui senza l’espresso consenso dell’interessato. Tanto meno, ciò può essere fatto in maniera subdola o fraudolenta (Cass. Pen. Sez. III, n. 27847 del 30.04.2015).
Nel caso di specie, però, l’effettiva ripresa dell’abitazione degli imputati non è stata giudicata reato.
Secondo la Cassazione infatti, che si è allineata a numerosi precedenti (per tutti, Cass. Pen. Sez. III, n. 2598 del 08.01.19), “il reato di cui all’art. 615-bis cod. pen. (interferenze illecite nella vita privata) non è configurabile per il solo fatto che si adoperino strumenti di osservazione e ripresa a distanza, nel caso in cui tali strumenti siano finalizzati esclusivamente alla captazione di quanto avvenga in spazi che, pur di pertinenza di una privata abitazione, siano, però, di fatto, non protetti dalla vista degli estranei”. La posizione espressa presta il fianco ad alcune critiche.
Essa, infatti, sembrerebbe avere ormai “sdoganato”, con il concetto di ambiente domestico non sufficientemente riparato, una sorta di consenso implicito della persona offesa.
Tale idea, però, si ritiene che sia ben lontana dalle intenzioni che ispirarono il legislatore.
Inoltre, così facendo, si rischia di addossare sul soggetto debole oneri inaccettabili, con un’inammissibile inversione di ruolo tra le parti (da offeso, cioè, a colui che deve difendersi).
La norma, altresì, non prevede alcun tipo di consenso implicito.
Anzi, nel contesto tecnologico in cui viviamo può osservarsi come la soglia di protezione andrebbe oggi (forse) paradossalmente anticipata.
Altro discorso, infine, è la possibile violazione della normativa civilistica a tutela della privacy anche in assenza di reato.
Nella fattispecie, pure se non affrontata in sentenza, si ritiene di no.
Ai sensi dell’art. 6, par. 1, lett. f), GDPR, infatti, la raccolta di dati personali, tra cui le immagini, è lecita quando avvenga, fra le altre finalità, con quella del legittimo interesse del titolare, tra cui rientra senz’altro quello legale (cfr. Linee Guida n. 3/19 sulla Videosorveglianza), in cui può comprendersi l’acquisizione di prove per la difesa in giudizio dello stesso titolare (il caso deciso).
Infine, è interessante osservare come sempre il GDPR consenta al titolare di opporsi alla richiesta di cancellazione dei dati dell’interessato, anche qualora siano illecitamente acquisiti, tutte le volte in cui il trattamento sia necessario “per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 17, par. 3, lett. e), GDPR).
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